RAGAZZI RIBELLI, RAGAZZI AGGRESSIVI, RAGAZZI VIOLENTI

 

 

 

 

L'unica strada per aiutare gli uomini a superare la violenza

 

 è di insegnare loro come incanalare la rabbia.

 

La rabbia è, infatti, come l'energia elettrica:

 

 usata male uccide,

 

usata bene è il motore che aziona mille cose

 

(GHANDI)

 

 

 

 

Ultimamente i telegiornali, i giornali riportano fatti di cronaca che mostrano un particolare tipo di criminalità, vandalismo, estorsioni, rapine, risse, pestaggi, i cui autori si collocano tra i 12 e i 18 anni e che generano domande profonde negli adulti.

 

 

 

Cosa spinge un giovane a comportarsi in questo modo? Cosa sta succedendo nel proprio processo di crescita sano, quella al quale ogni fanciullo ha diritto?

 

Si sente parlare spesso di malessere generazionale, di caduta e vuoto di valori, ma si può generalizzare un problema così delicato?

 

 

 

Per definizione, i ragazzi sono ribelli, ribelli alle regole, agli schemi, agli insegnamenti ed anche alle leggi. Questo meccanismo è fondamentale, diversamente da quanto si possa pensare, per l'emancipazione psicologia, i giovani hanno bisogno di ribellarsi per trovare la propria identità.

 

La crisi, tipica della fase adolescenziale vede il ragazzo attivare dei cambiamenti; è un precario equilibrio tra esigenze soggettive di sviluppo, condizioni esterne di sfida e competenze individuali, familiari e soggettive.

 

 

 

Non è possibile individuare cause specifiche che possano determinare la comparsa di una condotta deviante. Non è sufficiente infatti rintracciare condizioni sociali, familiari, scolastiche, gruppali o particolari caratteristiche personali come causa di comportamenti delinquenziali.

 

Una ricerca condotta dal Telefono Azzurro del 2004, “Il fenomeno del bullismo. Conoscerlo e prevenirlo” sottolinea che la provenienza socioculturale di ragazzi-violenti non necessariamente è il frutto di realtà familiari e sociali devianti o disagiate, ci sono stati infatti casi di giovani prepotenti che provenivano anche da famiglie benestanti o medio-borghesi.

 

Se si arriva a parlare di devianza, infatti, oltre ad avere un gran bisogno di conferme di sé e della sua identità precaria, il giovane adolescente avrà vissuto un insieme di eventi, situazioni e fatti che lo hanno portano a sperimentare solo in questo ambiente un’immagine di sé come capace e competente, come ragazzi violenti.

 

 

 

Analizziamo qual è la differenza tra episodi di violenza giovanili attribuiti a baby gang, o a bulli.

 

Il bullismo viene definito da Dan Olweus (“Il bullismo a scuola. Ragazzi oppressi, ragazzi che opprimono”, Edizioni Giunti, 1986) come “un’oppressione, psicologica o fisica, ripetuta e continuata nel tempo, perpetuata da una persona - o da un gruppo di persone - più potente nei confronti di un’altra persona percepita come più debole”.

 

Se si crea un gruppo, ci sarà un bullo e ci saranno i gregari, oltre ai cosiddetti spettatori, che osservano senza agire, deresponsabilizzandosi di fronte all’aggressione di un pari.

 

 

 

Gli stessi “bulli” sono spesso vittime di stili di vita in cui prevalgono educazioni autoritarie e intolleranti. La problematicità e il malcontento di questi ragazzi “sfocia” in forme di relazione non lecite come appunto la creazione vere e proprie bande criminali.

 

Una baby gang ha una connotazione specifica, una struttura verticale guidata da un leader, regole rigide di inserimento e mantenimento dei ruoli: tutti questi elementi sono volti al controllo del territorio tramite la violenza, che viene agita in maniera indiscriminata nei confronti di tutti, con reati contro il patrimonio o contro la persona; è costituita per lo più da ragazzi maschi, che scelgono volontariamente di rompere, aggredire, violentare persone e cose.

 

 

 

Se si guarda la devianza minorile da un punto di vista psicologico, vediamo ragazzi che sembrano aver perso il contatto con le regole sociali e prima ancora con la regolazione emotiva; la loro è una richiesta inconscia d'aiuto che spesso rimane inascoltata. 

 

Agire in modo impulsivo e rabbioso a un commento non coerente con le proprie attitudini, avere un “acting out”, non lascia spazio al dialogo, al confronto, al freno inibitore di determinate tendenze.

 

 

 

I ragazzi sono aggressivi, aggrediscono la realtà, perché fanno fatica a stare nella loro realtà.

 

Il verbo aggredire deriva dal latino «ad-gredior» che letteralmente significa "andare verso".

 

Nel suo significato etimologico essa sta a rappresentare un movimento verso qualcosa o qualcuno; la sua funzione è quindi quella di muovere la persona verso una meta, un oggetto, un'altra persona...

 

L'aggressività pur non avendo un significato intrinseco "patologico", diventa tale quando il soggetto non riesce più a controllarla, modularla, adeguarla alle situazioni o a "sublimarla" in attività creative e si trasforma in violenza.

 

 

 

Scrive Ezio Aceti, psicologo esperto in psicologia evolutiva e scolastica:

 

“Aggrediscono perché non sanno stare nella propria interiorità. Provano disagio e noia perché non conoscono se stessi, non sono capaci di introspezione e interiorità. Si affermano rompendo e aggredendo. Tutto ciò è desolante e preoccupante, perché rischiano di vivere fuori di sé pensando di essere superiori a tutto, mentre invece sono incapaci di relazionarsi alla vita, alle persone, alle cose.

 

Insomma sono ragazzi superficiali che compiono atti vandalici, con gravi conseguenze per le persone e le cose”.

 

 

 

Quali sono gli interventi più urgenti da attuare per trasformare questa energia violenta e distruttiva in spinta al cambiamento?

 

 

 

Sempre Ezio Aceti, ci illustra due interventi fondamentali per attuare questo cambiamento:

 

·         fargli riparare il danno: è importante che riparino i danni che loro stessi hanno provocato. Dovrebbero quindi fare attività obbligatorie di risarcimento, come lavori utili, magari con disabili e anziani, cioè a contatto con i bisogni degli altri. Questa attività fa comprendere loro come si possono recuperare atti vandalici mediante atti altruistici.

 

·         rieducarli alla dimensione sociale: occorre che questi ragazzi si rendano conto della propria dimensione interiore, delle capacità presenti in loro, dell’inutilità della violenza. Occorre che partecipino a momenti educativi e formativi, che li aiutino a comprendere il danno e allo stesso tempo li aiutino a relazionarsi con la propria interiorità e identità, onde scoprire di essere persone relazionali.

 

 

 

Gli adulti significativi, la famiglia, i servizi di sostegno al giovane, la scuola devono assumere un ruolo fondamentale nel processo educativo e di responsabilizzazione; diviene utile una collaborazione preventiva tra gli insegnanti, gli educatori e le famiglie.

 

Nel migliorare la qualità dei rapporti con le persone che circondano il mondo degli adolescenti, servono interlocutori, luoghi di ascolto, spazi di azione, gruppi di educatori che favoriscano attività espressive, sportive, di socializzazione e di aggregazione, promuovendo lo sviluppo di abilità che permettano ai giovani di fare una lettura critica della realtà sociale e, al tempo stesso, di ampliare lo spettro di possibilità, "vedendo" scenari altri, diversi da quelli consolidati e stimolando l’elaborazione di strategie adeguate.

 

Ricordiamoci di non lasciarli soli, la persona va educata, sempre.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dott.ssa GLORIA DI ROCCO

 

Psicoterapeuta individuale e di gruppo

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